COME SI FACEVANO SALAMI E FORMAGGI IN CASA

COME SI FACEVANO SALAMI E FORMAGGI IN CASA

CHE BUONI QUEI FORMAGGI FATTI IN CASA

La produzione del formaggio ha origini antichissime. La tradizione vuole che, nell’antichità, un pastore avesse messo del latte in uno stomaco di pecora in cui era rimasto del caglio, latte che poi si trasformò in formaggio. Anche i Romani erano produttori e consumatori di formaggio: oltre al latte degli ovini, cominciarono a adoperare anche quello di vacca ed appresero come stagionare il formaggio. L’evoluzione produttiva più importante risale al Medioevo: nei monasteri i formaggi cominciarono ad essere apprezzati e a comparire sulle tavole nobiliari di tutta Italia.

IN AUTUNNO SCENDEVANO LE PECORE…

Pecore al pascolo a Masio

Un tempo quasi tutte le famiglie che abitavano nelle cascine allevavano qualche pecora: da 5 o 6 fino ad una ventina. Servivano per avere la lana, davano gli agnelli che venivano venduti per Natale… E poi davano un buon latte che, con l’aggiunta di un po’ di latte di mucca, era perfetto per ricavare burro e formaggi.

Le pecore scendevano dai monti ad inizio ottobre; vi erano salite in maggio. I pastori che li avevano custodite durante l’estate provenivano dalla valle del Pellice, o del Chisone, comunque dall’Alto Pinerolese. Erano di religione valdese, “barbet” si diceva allora. Persone abituate alla vita grama e alla solitudine dei monti quando scendevano nella “piana”, complice uno o più bicchieri di vino, diventavano dei perfetti buontemponi, dei “compagnoni” capaci di battute “salaci”, spesso a doppio senso. Si accontentavano di poco, dormivano nella stalla, su un pagliericcio preparato per loro. Fino all’ultimo dopoguerra scendevano con gli animali a piedi impiegando, per il viaggio, alcuni giorni. Poi arrivarono i camion e… tutto cambiò!

PER NATALE SI VENDEVANO GLI AGNELLINI…

Pecore e capre della Prevostura

E poi si cominciava a mungere le pecore il cui latte era molto adatto per fare il formaggio. Un latte “grasso” che veniva lasciato 24 ore nelle “ole”, la classica olla dove, in superfice, si creava uno spesso strato di panna, la “fior”, che veniva tolta e con cui si faceva il burro utilizzando la “borera”, un recipiente chiuso, con una manovella che, girata a mano, agitava la panna fino a che questa si separava: il burro da una parte e l’acqua dall’altra. Il burro veniva poi sagomato in panetti e, fresco fresco, servito in tavola.

Olla per lasciar depositare il latte
“borera”, attrezzo per fare il burro (museo Poirino)

E POI SI FACEVA IL FORMAGGIO…

Il latte così “sfiorato” veniva messo nella “peirola” e poi sul fuoco a riscaldare fino a 40 gradi circa. Poi veniva tolto dal fuoco ed in esso veniva versato il caglio. Questo provocava la solidificazione del latte che dopo mezz’ora circa veniva sminuzzato con una “frusta a mano”, nuovamente riscaldato fino a 40 gradi. A questo punto, posizionata una grande bacinella per raccogliere la parte liquida, la “berlaita”, il futuro formaggio veniva versato dalla “peirola” nella “raiola”, un panno tessuto a maglie larghe che conteneva il formaggio e lasciava libero il passaggio della parte liquida, la “berlaita”, che cadeva nella bacinella e diveniva pasto per i maiali.

“peirola” e frusta
“raiola” per scolare

POI VENIVA MESSO NELLA FORMA…

A questo punto il futuro formaggio veniva messo nella forma cilindrica e pressato con dei pesi: intanto continuava a “perdere l’acqua”, la parte liquida. Il giorno dopo veniva tolto, salato e messo a stagionare. Periodicamente occorreva pulirlo in superfice raschiandone la muffa. Dopo un paio di mesi era pronto per il consumo: dapprima era fresco, morbido con gusto delicato tendente al latte, poi via via diventava più duro con gusto quasi da… parmigiano! Ad ogni pasto, da colazione a cena, era sempre presente sulle tavole “contadine”.  

pressa per formaggio (museo Poirino)
pressa per formaggio (museo Poirino)
pressa per formaggio, con vasca per lo scolo dell’acqua

DEL MAIALE NON SI BUTTA NIENTE

Come può un detto popolare essere così esaustivo in sole sette parole? Del maiale non si butta via niente! Un animale incredibile che può essere considerato “anti spreco” per eccellenza. Dalla pelle alle setole, dal grasso che può diventare strutto o candela. Il maiale è anche uno degli animali più intelligenti che esistano. Nella cultura contadina è considerato una grande risorsa alimentare che va ben oltre la sola carne. Gli agricoltori, da sempre, li crescono e allevano perché di questo animale ogni parte può essere lavorata o trasformata per essere poi consumata durante tutto l’anno. Un tempo quasi ogni cascina ne allevava almeno un paio: uno per il proprio consumo, l’altro per una famiglia amica. Poi, al momento di “fare i salami” ci si aiutava a vicenda, fin dal momento della macellazione del maiale stesso. Questa era una operazione che coinvolgeva tutti: chi manteneva l’acqua calda, chi macellava, chi raccoglieva il sangue per poi cucinare i “sanguinacci”, chi versava l’acqua sul corpo dell’animale appena sgozzato per facilitare coloro che ne raschiavano le setole, ecc.

ma che bei crinet – maialini

PRIMA…

Dopo una prima operazione di “pulitura” (dalle interiora e dalle setole) il maiale veniva fatto a “quarti” e lasciato raffreddare. Poi si disossava e si separava la carne dalla cotenna: la parte migliore finiva nei “salami crudi”, quella “intermedia” nella salsiccia, mentre nei cotechini finiva la cotenna (la cona) e altre parti meno pregiate (tanto che erano detti “salam ‘dr coni”). Le ossa venivano poi messe a bollire e, staccata la poca carne rimasta attaccata all’osso stesso, si facevano degli squisiti agnolotti che, spesso, rallegravano le feste di Natale, Capodanno e dintorni.

POI…

Intanto la carne e la cotenna venivano tagliate a pezzi e tritati con una apposita macchina azionata da una manovella girata a mano. Poi la carne tritata, versata in un contenitore capiente, veniva mischiata con le spezie: qualcuno aggiungeva anche chiodi di garofano e uno spicchio d’aglio, mentre tutti annaffiavano la pasta ottenuta con qualche bicchiere di buon vino. Dopodiché si procedeva ad insaccare la pasta ben mischiata nelle budella e poi a legare i “crudi”, le salsicce ed i cotechini. Infine, con uno strumento apposito, una specie di millechiodi, era il momento di bucherellare le budella per fare uscire l’eventuale aria in essi contenuta, la cui presenza potrebbe compromettere la conservazione dei salami stessi.

chi taglia, chi affetta, chi fa i dadi….
chi taglia, chi affetta, chi trita il tutto…

DOPO…

Dopo occorreva metterli ad asciugare: era una operazione fondamentale per una corretta conservazione dei salumi. Le salsicce ed i cotechini, che venivano consumati entro la fine della primavera, erano di più facile conservazione, mentre per i “crudi” la “faccenda” era più complicata. Spesso si lasciavano un paio di giorni in cucina per una prima asciugatura rapida, poi venivano spostati in uno stanzino apposito. Se la temperatura esterna era molto fredda si metteva nello stanzino un braciere (il classico “cucu” con la “brasa”). In primavera, prima dell’arrivo del caldo, i crudi venivano puliti dalla muffa e dalla polvere e poi, dentro appositi contenitori, immersi nel grasso. Sempre grasso dello stesso maiale, ovviamente. Era quindi una specie di “sottovuoto” che permetteva una perfetta conservazione del salame.

INFINE…

Non restava che gustarli! E le occasioni non mancavano! Feste e ricorrenze varie. Ma anche quando si “batteva il grano sull’aia”, quando si invitava qualcuno a pranzo o a cena. Ma un paio di fette, con una bella “mica” di pane e un paio di bicchieri di buon vino, serviva anche per far colazione, magari in campagna, dopo falciato il grano o l’erba nel prato. L’appetito non mancava e il salame era “buono da leccarsi i baffi!”

testi e fotografie di Matteo Avataneo

La casa natale di Eugenia Burzio

Nel dicembre 1976 comparve per la prima volta, su questo mensile parrocchiale, un articolo sulla nostra illustre concittadina Eugenia Burzio (1882-1922). Fino a quel momento pochissimi poirinesi erano a conoscenza della vicenda umana ed artistica della cantante lirica. Nel 1982, per il primo centenario della nascita, uscì una monografia a cura di Giorgio Gualerzi ed Edoardo Ferrati, illustri storici e critici musicali. Da allora si sono susseguiti diversi articoli su giornali non solo locali, conferenze, una ristampa monografica del 1999 arricchita da ulteriori autorevoli contributi per il centenario del debutto scenico, l’intitolazione alla Burzio di una via del concentrico cittadino, e le recenti iniziative dell’anno scorso per il centenario della morte, avvenuta a Milano nel 1922.

Non ripercorreremo qui cose già dette e scritte. Riferiamo invece soltanto una notizia che riguarda l’ubicazione della casa che diede i natali ad Eugenia: Via S. Sebastiano 8, come si legge nell’atto di nascita dell’Anagrafe Comunale, dato riportato fin dalle prime notizie di stampa. Sappiamo, dalle ricerche degli storici locali, che le denominazioni delle vie e relative numerazioni delle case sono variate più volte, e finora non si era ancora riusciti ad individuare con sicurezza l’abitazione dei genitori: Maurizio Agostino Burzio, medico chirurgo poirinese, e Luigia M. Margherita Ducato, pianista chierese.

Ora, grazie all’impegno dei nostri soci Luciano Baravalle e Bartolomeo Mosso, è stata finalmente trovata la casa natale corrispondente all’indirizzo di Via S. Sebastiano 8, vigente nel 1882. Si tratta della palazzina dei conti Lunel di Cortemilia, oggi Via XX Settembre 11, acquistata dal Comune nel 1934 per destinarla a sede dell’attuale Stazione dei Carabinieri. L’esatta ubicazione è stata resa possibile, con certezza assoluta, sia dall’esame delle volture catastali, sia dal registro della nuova numerazione delle case stabilita nel 1874. Lo stato sociale della famiglia Burzio-Ducato, appartenente alla media borghesia dell’epoca, poco si sarebbe conciliato con le povere e vetuste case che appaiono nella stessa via sulle fotografie di fine Ottocento. Era comunque in affitto, alla scopo di avere una sistemazione consona al ruolo professionale.

I conti Lunel di Cortemilia erano approdati a Poirino in seguito al matrimonio di Savino Lunel con Enrichetta Santi, figlia del Maggiore Gaspare Santi, benestante e Maire (Sindaco) di Poirino nel periodo imperiale napoleonico, proprietario della casa che sarà poi trasformata dai Cortemilia, presumibilmente tra gli anni Trenta e Quaranta dell’Ottocento, nella palazzina giunta fino a noi. Che conserva ancora, nel timpano triangolare della facciata neoclassica, lo stemma gentilizio del casato.

Clemente Rovere, funzionario regio che a metà Ottocento disegnò alcune vedute del nostro paese, ha lasciato anche un manoscritto inedito conservato a Torino alla Deputazione Subalpina di Storia Patria, dove si legge tra l’altro: “Di privati edifizi in Poirino stanno diverse belle case, fra le quali si distingue principalmente la palazzina dei Lunelli che trovasi lungo la contrada la quale dalla piazza maggiore conduce alla cappella di S. Sebastiano”.