CRIVELLO Alessandro

ALESSANDRO CRIVELLO

 

Sono nato (1951) e cresciuto ai Favari in una famiglia di paisàn, (contadini o coltivatori che dir si voglia); ai Favari sono vissuto per 27 anni (quando mi sono sposato, 1978, mi sono trasferito nella “city” poirinese) ma ho sempre conservato un profondo legame con casa, terra e borgata natìa, e non solo con madre, padre, zia, sorella e parenti ma anche con gli amici, le feste, la chiesa e il circolo parrocchiale, l’orto (che continuo a praticare).

Mi piace ricordare alcuni momenti del passato, tradizioni e ricorrenze che altri hanno già ricostruito meglio di me; lo faccio con l’aiuto di mia zia marin-a Neta, (Anna Burzio) che ha superato la soglia dei 92 anni, salute un po’ acciaccata ma lucida di mente, ora ospite dell’Istituto Geriatrico.

NB: nei termini in piemontese ho riprodotto il lessico effettivamente usato nella parlata poirinese, che talvolta differisce dal Piemontese ufficiale dei dizionari. Nella grafia invece ho cercato di rispettare le regole del Piemontese

BOZZETTI FAVARESI 

(scritti tra il 2017 e il 2019)

VIJA’  (mesi invernali)

Io le ricordo ancora le vijà di quando ero ragazzino ai Favari (anni Cinquanta – Sessanta). A turno le famiglie si radunavano nelle rispettive stalle al caldo degli animali: le donne facevano la maglia (gli scapìn), gli uomini cianciavano (a volte il padrone di casa intrecciava le ceste di vimini o le corde), i bambini giocavano o stavano ad ascoltare i discorsi dei grandi in attesa dei dolci (le bugìe, i canestrelli, le focacce o galucio, a seconda della stagione). Talvolta passavano gruppi di giovani che catturavano con delle reti i poveri passerotti che si erano rifugiati nel fienile (nelle mugie). Non c’erano ancora i televisori; ma per Sanremo si accendeva la radio o si andava a guardare il televisore al Circolo parrocchiale.

VEDRE RAMAGIA’ (mesi invernali)

Ai Favari gli impianti di riscaldamento nelle case sono stati installati negli anni sessanta-settanta, con i termosifoni in tutte le stanze, una grossa caldaia e una enorme vasca che conteneva nafta oleosa e nera. E così si andava a letto al tepore dei termosifoni. Ma prima le cose stavano diversamente. L’unica stanza riscaldata era la cucina dove era sempre acceso il potager. Invece nei corridoi e nelle stanze da letto si gelava; dove dormiva un bambino o un anziano si aggiungeva una stufa con lunghe canne fumarie che intiepidivano un po’ gli ambienti. Per alleviare lo shock da freddo quando ci si coricava tra le lenzuola gelate, le donne posizionavano il “cucu”, un braciere di terracotta riempito di tizzoni ardenti, inserito all’interno del “preive” ovvero una struttura lignea oblunga posta tra le lenzuola che così si riscaldavano, ma che doveva essere tolta quando ci si coricava; oppure si collocava una “buta”, ovvero un contenitore di acqua bollente in rame che riscaldava le lenzuola. Ma poi durante la notte regnava il gelo, smorzato dal vapore acqueo prodotto dal respiro dei dormienti. Il mattino al risveglio ai vetri delle finestre appariva però una meravigliosa opera d’arte: i “vedre ramagià”. Il vapore acqueo a contatto con i vetri gelati delle finestre si condensava e si trasformava in splendidi ghirigori artistici: fiorami, fogliami, ceselli d’arte, mosaici ecc. Chissà quale artista segreto modellava così bei disegni? Osservare tali disegni alleviava un po’ la sensazione di freddo che si percepiva. Tempo alcune ore e i raggi del sole scioglievano tali creazioni artistiche che tornavano a formarsi nella notte successiva.

FRUMAGG ‘D NA VȮTA  (mesi invernali)

     Mi racconta magna Neta che in passato (anni Cinquanta, Sessanta) ai Favari molte famiglie di paisàn in inverno facevano i formaggi in casa, mischiando latte di vacca con latte di pecora. Le famiglie avevano allora sei-sette vacche e nel periodo invernale un piccolo gregge di pecore (da sei a dieci) che in estate venivano cedute ai pastori della val Pellice.

     Il latte munto per alcuni giorni veniva conservato nelle ole (olle), recipienti in terracotta smaltata; sulla superficie si formava la fior, la panna che veniva raccolta per trasformarla in burro. Quindi il latte veniva messo in una ramin-a, un pentolone, veniva aggiunto del préis cioè del caglio, e quindi il latte veniva portato ad ebollizione. Si formava una cagliata che veniva frammentata con un mestolo e riposta in una pezza di cotone (rairòra) da cui il liquido lattiginoso fuoriusciva. La rairòra contenente la cagliata era quindi riposta in una forma metallica cilindrica bucherellata, sopra si ponevano delle formelle rotonde in legno su cui poi veniva posata una grossa pietra il cui peso doveva comprimere il formaggio in formazione. Per due giorni si procedeva a rivoltare il formaggio, quindi la forma rotonda del formaggio veniva estratta e posta ad essiccare in cròta (cantina). L’essicazione durava alcune settimana quindi il formaggio poteva essere consumato. Capitava che se era consumato dopo parecchio tempo, si formava una crosta dura e soggetta a tarlatura da parte di insetti.

    Il liquido latteo che colava dal formaggio in formazione (bërlaita) era talvolta sottoposta a una nuova cottura con l’aggiunta di altro latte e di un po’ di caglio: si ricavava così il seirass ovvero la ricotta, che doveva essere consumata entro pochi giorni. Infine il liquido lattiginoso che rimaneva come scarto finale era dato da bere ai vitellini o al maiale allevato in cascina per i salami.

     Rimane da dire del burro che veniva prodotto con la panna raccolta dal latte munto e conservato per alcuni giorni. Tale panna (fior) veniva introdotta in un bottiglione oppure in una macchinetta in legno con rotella interna, opportunamente sbattuta per alcune ore finché la parte più cremosa (il burro) si separava dalla parte più liquida.

      Formaggi e burro autoprodotti erano una componente importante nella alimentazione delle famiglie contadine che limitavano al massimo gli acquisti di prodotti dal mercato. Anzi, se producevano in eccesso formaggi e burro, li vendevano al altre famiglie, li scambiavano con altri prodotti o li regalavano ad amici e parenti.

CANDELORA

Ogni due febbraio si celebrava Candelora, (candlera). Ricordi di quando ero bambino: si andava in chiesa per una breve funzione, venivano distribuite candele colorate benedette. Mia madre, quando tornava, accendeva la candela e passava la fiammella sotto la volta superiore di ogni finestra della casa e della stalla, fino a che era tracciata una Croce con il fumo della candela, in particolare alle finestre delle stalle (per imitazione anch’io compivo questo rito arrampicandomi sopra le mangiatoie delle bestie). Fede o superstizione? Forse entrambe, ma mia madre era profondamente religiosa ed esprimeva la sua religiosità anche attraverso gesti e riti tramandati.

Il GRANO: dalla mietitura alla trebbiatura  (giugno – agosto)

Verso la metà di giugno, dopo la festa patronale di S. Antonio, si cominciava la raccolta del grano. Prima si facevano le “strade” ovvero con la falce si tagliava il contorno dei campi per fare il passaggio alla macchina che tagliava il grano trainata da un trattore: servivano due persone, una alla guida del trattore, sovente un ragazzo, l’altra sulla macchina per azionare la raccolta delle spighe in “giavele” che venivano subito spostate dalle donne per consentire a trattore e macchina di tagliare il grano rimanente. Le “giavele” per alcuni giorni venivano rivoltate per favorire l’essicazione, quindi venivano unite per formare le “coeuv” ovvero i covoni legati con una cordicella o anche solo con un pugno di spighe. Di sera, specie se c’era pericolo di pioggia, le  “coeuv” venivano raccolte in mucchi detti “burle” (le spighe in alto coperte trasversalmente da alcune “coeuv”).  Quando il grano era ben essiccato, veniva caricato sui carri (tamagnun) e portato nella cascina, sotto la tettoia. Di lì a poco veniva trebbiato: una gran fatica ma anche una festa: bàte ‘r gran. Serviva molta manodopera per cui le famiglie si aiutavano l’una con l’altra. Ai Favari passava nelle varie cascine Maghin-a, ovvero Battista Avataneo che disponeva della macchina trebbiatrice, del trattore per farla funzionare insieme alla imballatrice della paglia.

La trebbiatura iniziava il mattino presto, alle prime luci dell’alba. I manovali che seguivano la macchina non tornavano nelle proprie case, dormivano nelle stalle, erano una squadra di tre – quattro che si alternavano nelle varie postazioni di lavoro: uno sulla trebbiatrice in alto regolava l’immissioni dei covoni slegati da due donne, un altro insaccava il grano trebbiato nei sacchi, un altro ancora serviva l’imballatrice della paglia con i fili di ferro per fare le balle di paglia. Poi c’erano altre persone, uomini e donne, che passavano i covoni dalla tettoia alla trebbiatrice e che sistemavano la paglia sciolta (paié) o imballata sotto una tettoia. Bate ‘r gran era un lavoro faticoso, si mangiava tanta polvere ma era anche una festa: ci si ritrovava insieme più famiglie, si mangiava insieme a pranzo e a cena; per la colazione invece il lavoro non veniva sospeso, si faceva a turni.

     Il grano trebbiato veniva portato su nel solaio (grané), ogni tanto veniva smosso con una pala fino a che non veniva venduto. Al tempo della guerra c’era un controllore del grano trebbiato che doveva essere quasi tutto consegnato all’ammasso presso il Consorzio Agrario; a volte il controllore lasciava correre qualche sacco. Non se ne produceva molto, a volte era mischiato con semi di erbe, non c’erano ancora i diserbanti però la coltivazione del grano era la più importante in ogni cascina, richiedeva meno lavoro rispetto alla meliga e ai prati, non doveva essere bagnato.

PLÉ RA MERIA  (autunno)

Nei decenni scorsi (anni Cinquanta – Settanta) in campagna le sere di ottobre si trascorrevano a plè ra meria (sfogliare il mais). Non c’erano ancora né le mietitrebbie né le macchine raccoglitrici del mais; le pannocchie venivano raccolte a mano dai filari di mais entro sacchi di iuta portati a spalla e sversati sul rimorchio (tamagnon); qualcuno usava ancora il carro (carton) trainato dal cavallo. Lavoro faticoso, pesante quello della raccolta delle pannocchie, con le foglie secche del mais che ti tagliavano il viso e le mani; ti sembrava di essere in una giungla. Le pannocchie venivano portate in cascina, scaricate ed ammucchiate per essere sfogliate. Una parte di queste pannocchie venivano appese ad una staccionata legata ad una parete della tettoia o della stalla (pantaléra) e lì rimanevano ad essiccare all’aria aperta fino alla primavera. Un’altra parte invece venivano sfogliate di sera, dopo una giornata di lavoro; ma era anche una occasione di scambio di aiuto tra le diverse famiglie e di incontro per chiacchierare. Per due ore il vicinato, uomini e donne, bambini e anziani, si ritrovava per plè ra meria ma era anche un momento in cui si “sfogliavano” tutti gli assenti: informazioni reciproche su di sé ma soprattutto sulle persone non presenti, con tanti ricami sulla gente più in vista, a partire dal parroco per passare a chi stava cercando fortuna fuori della borgata con un negozio, una attività artigianale o un lavoro in fabbrica; e poi ancora sui prossimi matrimoni, con tante considerazioni sullo status economico dei due prossimi sposi e delle rispettive famiglie di provenienza. Mi ricorda magna Neta  che a  metà serata la padrona di casa distribuiva il caffè alle donne e portava un pintone di vino per gli uomini; verso le 22,30 passava l’aereo proveniente da Roma e diretto a Caselle: lo si notava  per le luci intermittenti che comparivano in formazione nel cielo, seguite dal rumore di fondo dei motori; c’era sempre qualcuno che esprimeva il desiderio di poter volare almeno una volta seguito da chi invece proclamava che mai avrebbe volato per paura. Il passaggio dell’aereo segnalava che di lì a poco si sarebbe smesso; ci si dava appuntamento per la sera successiva nella stessa casa o presso un’altra, e seguiva la buona notte.

I SALAMI IN CASA (tardo autunno)

Per fare i salami in casa si comprava un maiale, in tre o quattro famiglie, si radunavano tutti in una casa, il maiale veniva ammazzato, si raccoglieva il sangue perché anche il sangue era buono, veniva mangiato con la polenta; intanto si metteva una grossa pentola sul fuoco, l’acqua bollente veniva buttata sul maiale morto, quindi si raschiavano i peli e la pelle. La bestia veniva appesa per le gambe posteriori e veniva spartita in quattro parti corrispondenti alle gambe.

Le donne lavavano le budella che venivano impiegate per fare salami e salsicce. Le carni del maiale venivano tagliate fino a farne dei piccoli dadi, si aggiungeva carne comprata di vitello, quindi si faceva un impasto con l’aggiunta di droghe (pepe, chiodi di garofano …)

L’impasto di carne veniva poi messo nella macchina che macinava la carne e la faceva uscire attraverso i cornetti di varie misure in cui si inseriva il budello; si girava la manovella e la carne usciva e si formava il salame che veniva suddiviso in diverse unità legate con spago. C’erano tre tipi di salami: il salame normale, la salsiccia, il salame dër cune, fatto con la cotica del maiale ma si aggiungeva anche un po’ di carne: questi salami dër cune non si mangiavano crudi ma dovevano essere cotti per alcune ore, come contorni si usavano fagioli

I salami venivano quindi appesi in cantina perché asciugassero, dopo venivano deposti in olle piene di grassa per la conservazione. Anche le salsicce venivano appese ma si consumavano in tempi brevi.

Queste operazioni si facevano in autunno, prima di Natale, in genere nel mese di novembre

C’erano anche degli scherzi per i bambini: venivano mandati dai vicini a prendere la misura dei salami da fare: loro tornavano con un sacco in cui era stato riposto un pezzo di legna, e così si rideva.

FOGASE E GAIJ.  (dicembre)

In prossimità del Natale mia zia Neta impastava farina, lievito, uva passa, zucchero; dopo che la pasta era lievitata, formava le focacce (fogase) di forma rotonda o con la forma di galli (i gaij o galucio), poi si recava al forno (stava proprio sulla piazza dei Favari) dove venivano cotte: questi erano i nostri panettoni, duravano almeno fino all’Epifania, erano oggetto di scambio con le altre famiglie (tasta i mé, mi tast i tò ca smìo pì bon). Sì, erano buone quelle focacce, le mettevamo anche nel latte per colazione, però ci rimaneva un po’ di invidia per i cittadini che mangiavano il panettone. Ma a quell’epoca, anni Cinquanta – Sessanta, nelle campagne non si usava comprare il panettone.